Fabrizio De André, La guerra di Piero
Il rispetto ai soldati caduti a Kabul è dovuto. Da qui a farne dei martiri e degli eroi il passo è lungo. Condanno davvero e senza riserve gli insulti che in rete sono stati rivolti ai morti. Avere rispetto per i morti, indipendentemente dalla causa della morte, è una questione minima di civiltà. Però l'esibizione di dolore, l'enfasi, lo spazio spropositato dedicato sui giornali e in Tv a quanto accaduto in Afghanistan - e per contro la scarsa attenzione alle vittime locali - risultano altrettanto fastidiosi. Non sono del tutto d'accordo con chi sostiene il paragone con i morti sul lavoro, tanti, dei quali poco o niente si parla. Sono cose diverse. Tuttavia è vero che a dare pesi inuguali alla morte e al dolore per i morti contribuisce, colpevolmente, l'informazione che conta. Il figlio di un morto sul lavoro dovrebbe suscitare la stessa emozione di quello del soldato ucciso o del figlio di un deceduto in un incidente stradale. La qualità del dolore dei congiunti, non muta.
In Afghanistan è in corso una guerra e guerre sono tutte quelle dove si impiegano soldati armati. Chiamiamole come vogliamo, ma la sostanza non muta. Chi si arruola volontario sa di correre un rischio calcolato, in cambio di un beneficio economico. Ci sono attività umane ad alto rischio. Fare il soldato è tra queste, ma anche fare il pompiere o il poliziotto, lavorare in miniera, o semplicemente in un cantiere edile, comporta pericoli. Un manager, un medico, un avvocato, un insegnante o un qualsiasi esercente di certo conducono attività meno azzardate, tranne in casi eccezionali. Ci si potrebbe chiedere chi e perché è impiegato in certi lavori, ma questo ci porterebbe troppo lontano.
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