A 85 anni è scomparso Cesare Cases, un maestro.
In una breve autobiografia scrive di dè:
"Sono sempre scisso tra tentazioni estremistiche, di gran lunga prevalenti, perché non è chi non veda che il mondo ha bisogno di essere radicalmente riformato, e controspinte conformistiche, quando giudico l'impresa disperata. Non essendo cattolico come lo era a suo modo Brecht, non posso tenere i piedi in entrambe le staffe"
[...] Cases era legato alla realtà e appassionatamente schierato contro le tendenze dominanti. Al tempo della caduta del muro di Berlino e dell'unificazione tedesca, la sua fu una delle poche voci critiche, cioè dubbiose, fuori dal coro entusiastico globale. Cesare moderava gli entusiasmi anche legittimi, interrogandosi con qualche angoscia sul futuro della Germania, dove finché ha potuto camminare si è sempre recato per passeggiare nella solitudine dei boschi. Qualcuno criticò l'ebreo settentenne per il suo flash back sulla «Grande Germania» e l'avversione alla «santificazione del dio mercato». Il dubbio era (è) un'eresia. Dunque, chi non si accontentava di gioire per la liberazione dal giogo stalinista e si arrovellava su futuro e utopia era pazzo. Peggio, stalinista. Sull'unificazione tedesca, il 3 ottobre del `90 Cases scrisse un lucidissimo editoriale sul manifesto che iniziava così: «Per essere il più impopolare possibile bisognerà cominciare con il nazismo...». Il titolo era un inno al dubbio, cioè alla ragione: «C'è da aver paura?». Questo giornale è orgoglioso di averlo avuto tra i suoi collaboratori. Un collaboratore speciale, un intellettuale vero a cui potevi chiedere un'opinione su tutto, dalla Fiat alla Palestina, dal Pci ad Adorno. Ce ne vorrebbero molti di collaboratori così.
Loris Campetti il manifesto.it
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