
In questa tragedia, non meno drammatica dello tsunami che il 26 dicembre scorso ha spazzato l’oceano indiano, è scomparsa un’intera generazione di bambini (si parla di ventimila). Straziante.
Inevitabilmente viene da pensare alla sottile linea di demarcazione tra vita e morte. Appartengo all’esigua minoranza di chi non crede a qualche forma di vita ultraterrena. Per quelli come me la morte è non-essere, un eterno sonno senza sogni. Una esperienza che non appartiene alla vita, avulsa da qualsiasi stato di coscienza. Di per sé la morte non è cosa né buona né cattiva per chi muore. Certo l’ultimo pezzo di cammino cosciente che conduce al trapasso può essere più o meno angoscioso. Non a caso tutti ci auguriamo una morte improvvisa e priva di dolore. Comunque la sofferenza sta tutta dalla parte della vita, di chi resta ad elaborare il lutto della perdita di persone care. C’è sempre patimento per la scomparsa di qualcuno al quale si è sentimentalmente legati, ma cosa c’è di peggio della morte di un figlio? Non appartiene all’ordine naturale delle cose. Per la stessa ragione una strage di bambini addolora tanto. Non avranno l’opportunità di sperimentare che “la vita è bella” anche quando miserabile se misurata con i parametri economici e culturali dominanti e lo è proprio perché è l’unica che abbiamo a disposizione, irripetibile. Certo chi ha la fortuna di essere toccato dalla grazie della fede sorriderà di queste considerazioni e altri cercheranno di sfuggire alla disperazione del nulla, consolandosi con qualche più o meno elaborata teoria. Rispetto profondamente qualsiasi credenza, anche le più inverosimili. La solitudine esistenziale di chi non confida in niente di assoluto che ci trascenda è grande, talvolta insopportabile.